Le città sono di pietra e durano più degli uomini
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“Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi”. Italo Calvino descrive così, nella presentazione delle sue Città invisibili, quei piccoli mondi urbani che chiamiamo città. Fedeli ad un rapporto biunivoco e continuo, le città creano e sono create dai loro abitanti.
L’aspetto urbano, non a caso oggi studiato come elemento di espressione storica nei luoghi che hanno conservato vestigia dei tempi passati, ha da sempre compenetrato l’esistenza dell’uomo-cittadino. Riprendendo Calvino, l’uomo esprime nelle città e nella loro architettura i propri desideri, la propria memoria, i segni di un linguaggio che rimangono impressi indelebilmente nel paesaggio urbano. Lo spazio diviene un vero e proprio personaggio e stabilisce un dialogo con l’abitante umano, che costruisce e modifica l’apparato urbano, modellandolo, forse inconsciamente, a sua immagine e somiglianza. Secondo questa visione, lo spazio non è più solo un vuoto da riempire in senso funzionale ma assume la status e la dignità di prodotto e simbolo della stessa natura umana, uno specchio che riflette continuamente l’immagine di chi osserva, modellandone di rimando le abitudini e il vivere.
E’ quindi soprattutto la cultura, l’insieme di valori che costituisce l’identità umana, a proiettare nell’ambiente cittadino i suoi sistemi. Le tracce di questi sistemi di valori si ritrovano negli elementi caratterizzanti della città e affermano il carattere identitario fondato sul valore semantico dei luoghi. Architetture, spazi urbani e percorsi esprimono e rimandano la stessa identità del cittadino, fondamento della cultura urbanistica europea. Di questo e altro ancora ci ha parlato il professor Marco Romano, esperto di Estetica della città, docente universitario e autore di importanti saggi sul tema (L’estetica della città europea e La città come opera d’arte tra gli altri): “l’Europa, ormai da mille anni a questa parte, si è sviluppata costruendo città aperte, mobili e democratiche”. In una città europea è previsto lo spostamento continuo: i cambi di residenza sono liberi e la città, democraticamente, si apre ad accogliere chiunque abbia la volontà e la possibilità di trasferirsi, mutando il paesaggio urbano con i cambiamenti apportati dai suoi desideri. L’espansione delle nostre realtà urbane è dunque fisiologica, connessa al mutare di desideri ed esigenze: se nella prima metà del Novecento era considerato normale vivere in pochi metri quadrati, ora gli spazi domestici tendono ad ampliarsi a dismisura.
Il fatto, del resto, non è nuovo: già nel quattordicesimo secolo Giovanni Villani, cronista fiorentino, si lamentava dell’eccessiva espansione periferica della sua città. Se lo spazio urbano va stretto ai cittadini, questi si muovono per cercare una dimensione più comoda all’esterno: si pensi a quanto sta accadendo a Reggio Emilia, con il proliferare di centri fuori città a scapito di un centro storico che si svaluta. Bisogna quindi considerare anche un secondo, importante aspetto. Nella cultura europea la casa rappresenta uno status sociale. A differenza, ad esempio, della società islamica, nella quale i fondamentali legami di sangue si concretizzano in quartieri abitati in modo ereditario e chiuso da clan e famiglie imparentate, la mobile e aperta città europea permette di creare il proprio spazio a misura di status e di ricchezza. L’aspetto urbano, al contrario di ciò che accade in altre società, non è statico e si configura secondo le possibilità e le volontà degli abitanti.
Inoltre, come sottolinea il professor Romano: “i temi collettivi con cui si confrontano le nostre città sono gli stessi da lunghissimo tempo”. Il palazzo municipale, la piazza del mercato, la promenade, la chiesa, la biblioteca sono tutti elementi che ritroviamo in un comune sfondo di urbanizzazione europea. Questi temi rimandano al senso di identità della civitas: la città, attraverso la sua amministrazione, riconosce la dignità del cittadino costruendo un duomo, un palazzo comunale e via dicendo. A testimonianza di ciò, il fatto che la città con la strada centrale caratterizzata da negozi e abitazioni eleganti che termina nella piazza principale, esiste solo in Europa. Le strade europee, a differenza di quelle arabe, per continuare su questo paragone, sono percorribili, decorate e abitate, proprio perché funzionano da espressione dello status sociale.
C’è da rilevare che questa tradizionale architettura urbana ha conosciuto un mutamento negli ultimi cinquant’anni: l’abbandono dei concetti sopra descritti ha fatto scomparire, principalmente nelle periferie, piazze e strade tematizzate. Le architetture hanno costruito dei riferimenti che vanno oltre lo spazio specifico, per appoggiarsi a concetti e necessità slegate dal territorio, teorizzate in senso generale e sperimentate su luoghi diversi tra loro. I quartieri dei sobborghi hanno perduto quegli elementi caratterizzanti che li legavano indissolubilmente a un luogo specifico. In questo modo si è disfatto il sentimento che ha sempre legato il cittadino alla città. Ci riferiamo a un processo di globalizzazione dell’urbanistica che ha indebolito il rapporto tra luogo e abitante, fondato su temi collettivi che vengono declinati in modo unico in ognuno di quei piccoli mondi urbani chiamati città.